Racconti



Spalato 1939-1943

Il mio compito? Accompagnare chi viaggia. Il mio destino? Restare per sempre legata al ricordo di chi mi ha portata con sé nel viaggio della vita.
Sono fatta di legno, piccola ma robusta, rafforzata sugli angoli da otto protezioni di metallo. Mi costruì con abilità e passione Giuseppe, un giovane falegname di Mambrotta, piccolo paesello in provincia di Verona.

Era una fredda mattina dell’autunno 1939 quando abbiamo raggiunto insieme la stazione ferroviaria per prendere il treno che ci avrebbe portati al fronte.
Di quel primo viaggio ricordo poche cose, particolari insignificanti, ma che mi sono rimasti impressi e non potrò mai scordare. Vicino alla parete, ad un solo passo dallo sportello della biglietteria, c’era una panchina di ferro. La notai appena perché era sommersa, messa a dura prova da quei sei ragazzotti robusti; quattro stavano seduti in qualche modo, troppo stretti l’uno all’altro, sulla seduta, mentre gli altri due erano appollaiati in bilico sullo schienale alle loro spalle. Mi sono chiesta: “Chissà se già si conoscono? “ Certamente in quel momento non si guardavano e neppure parlavano tra loro. Gli sguardi rivolti a terra, sperduti nel vuoto di quel silenzio irreale che precede ogni partenza, ogni viaggio al suo inizio. “Partire è un po’ morire”, recita il primo verso della poesia di Edmond Haracourt, e quella mattina, per i tanti giovani che si apprestavano a salire su quel treno, il significato delle parole non risuonava affatto metaforico. Chissà cosa pensavano in quel momento quei ragazzi abituati alla vita faticosa e un po’ monotona della campagna… sapevano, in cuor loro, cos’è la guerra? Forse, per allontanare la paura dell’ignoto, speravano che il treno, alla fine di quel viaggio, li portasse a conoscere mondi che altrimenti non avrebbero mai avuto l’occasione di vedere e ad incontrare persone diverse, affascinanti, e abituate ad una vita a loro completamente estranea.

Alla partenza fui sistemata in alto nello scompartimento e vicino ad altre due viaggiatrici, una di pelle marrone segnata da graffi, l’altra di spesso cartone legata con lo spago. Posso dire, quindi, senza peccare di superbia, che tra le tre ero quella di più bella fattura. I nostri compagni, seduti sotto di noi, alternavano momenti di chiacchiere a lunghi istanti di silenzio. Il silenzio del viaggio… Giuseppe guardava il paesaggio scorrere dal finestrino e osservava il mare, immensa massa d’acqua, che vedevamo per la prima volta nella nostra giovane vita. Eravamo diretti verso la lontana terra di Dalmazia, destinati ad una città che porta il nome della ginestra spinosa, Spalato. Tra i giovani chiamati, che avevamo appena incominciato a conoscere nelle lunghe ore di quel viaggio, fummo forse tra i più fortunati. Ci destinarono, infatti, all’Arma del Genio trasmettitori, con il compito particolare di radio-telegrafisti. Così, per i successivi tre anni, lavorando in quella grande e fredda officina piena di rumori, Giuseppe si occupò di attività a supporto dell’avanzamento delle truppe, e, pur vivendo in mezzo all’assurda logica della guerra, udimmo solo da lontano il fragore delle bombe.

Ci concessero una licenza e tornammo a casa all’inizio di settembre 1943. Angiolino, il figlio che Giuseppe aveva appena visto nascere nel gennaio prima della partenza, era diventato un vivace ragazzino di quattro anni, capace di tenere testa alle due sorelle maggiori. La vita famigliare, in campagna, nonostante le numerose incombenze e gli impegni anche gravosi, era per Giuseppe come una vacanza se paragonata alla vita al fronte, e lui ogni giorno al risveglio assaporava con gusto la semplicità del suo quotidiano. Purtroppo, o forse dovrei dire per fortuna, la tranquillità durò poco e in quello stesso autunno, solo poche settimane dopo il nostro arrivo, dovetti ancora mettermi in viaggio ed accompagnare Giuseppe all’ospedale. Si era ammalato di pleurite. Una notte, infatti, tra lo scompiglio generale e le urla dei paesani, aveva affrontato con coraggio il mio più acerrimo nemico, il fuoco, che stava divorando implacabile una stalla del paese, e aveva respirato il nero fumo sprigionato dalle fiamme. Era un uomo fortunato: ne uscì un po’ malconcio, ma vivo. Quell’episodio, purtroppo, non fu il primo, ma neppure l’ultimo e non tutti ebbero un epilogo così favorevole. Il fuoco, la distruzione e la paura ci venivano portate in casa dai bombardieri “Pippo” Alleati, quando compivano le loro solitarie incursioni notturne nelle campagne del nostro Veneto. Quella lunga malattia, contratta a seguito di un gesto di solidarietà, fu tuttavia la nostra salvezza. Da allora e fino alla fine della guerra non fummo più richiamati al fronte.

Non per tutti, però, c’era stata una licenza e neppure un fortunato ‘incidente’ che impedisse il ritorno al servizio sulle linee nemiche. Molti degli amici di Giuseppe e le loro compagne di pelle e di cartone, si trovavano ancora a Spalato quell’8 settembre 1943, quando il Generale Badoglio annunciò alla radio a tutta l’Italia che era stato firmato l’armistizio con gli Alleati. Essi morirono per mano di amici, nemici o partigiani, abbandonati alla loro paura, nel trambusto e nell’incertezza che si dilagò dopo la resa.

Sono una valigia, ma non viaggio più da molti anni. Sto vicino alla stufa e contengo la legna che ci riscalda d’inverno. Oggi sono fiera di me stessa, forse più di un tempo, perché con la mia presenza e la piccola targa scritta a mano “Spalato 1939-1943” ricordo alla mia famiglia di quell’uomo buono e fortunato, con gli occhi colore del cielo, nato nel 1910, che fu il loro amatissimo nonno e il mio indimenticabile compagno di viaggio.

Racconto inviato per la partecipazione al Concorso di narrativa 'L’immagine parla' IX edizione - anno 2015 organizzato dall'Associazione culturale “IL MAESTRALE” . L'immagine incipit per questa edizione è stata gentilmente concessa dal Circolo Fotografico 'Oltre lo sguardo' di Erbusco (Bs) e realizzata dal fotografo Marco Pasinelli.
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Il sentiero per la scuola


La Primavera era ormai vicina. La si poteva avvertire nell’aria: la fresca brezza ogni giorno si faceva più tiepida e tanti teneri fiorellini cominciavano a dispiegare le loro corolle multicolore riversando intorno gentili profumi. Solo gli uccellini non avevano ripreso ancora a cantare. Da più di un anno ormai facevano silenzio, spaventati com’erano dal ricordo del suono improvviso delle sirene d’allarme e dai fragori e schianti che spesso ne seguivano lasciando tutt’intorno solo desolazione e paura.

Marya e Ismaele furono d’improvviso risvegliati dal caldo tepore del loro sonno mattutino. La mamma non era ancora arrivata ad accendere la luce ed aprire la finestra avvertendoli che ormai era tempo di prepararsi per andare a scuola. Dalla persiana abbassata entrava pochissima luce, segno che doveva essere ancora molto presto. Parve ad entrambi di sentire un rumore provenire da sotto la scrivania di Marya, come uno strano scricchiolio sommesso. Cos’era stato? Marya pensò subito al suo maggiolino, quel bellissimo animaletto verde un po’ goffo che il giorno prima aveva incontrato in giardino e, desiderando tanto fare amicizia con lui e conoscerlo meglio, di nascosto da mamma e papà aveva sistemato su un letto di foglioline fresche in una piccola scatolina trasparente che aveva messa nel suo cassetto dei segreti, quello in cui nessuno poteva guardare. Ismaele, invece, ebbe come un flash e si ricordò d’improvviso di non aver spento il suo robottino cibernetico, che probabilmente doveva essere rimasto sommerso nella confusione sotto le costruzioni e le macchinine sparse sul pavimento della loro cameretta. Nessuno di loro, però, aveva il coraggio di farsi sentire già sveglio e di accendere la luce per controllare cosa avesse provocato quel rumore e quindi, nel caldo rassicurante dei loro soffici cuscini e trasportati dal ricordo dei bei sogni bruscamente interrotti, si riaddormentarono. Al mattino, appena scesa dal letto, Marya si affrettò a controllare il suo maggiolino, che ancora sonnecchiante sembrava non aver proprio voglia di riassaporare la sua riconquistata libertà, mentre Ismaele, smemorato com’era, non si ricordò affatto del suo robottino, che nel frattempo aveva completamente esaurito la carica delle sue piccole batterie e giaceva immobile e silenzioso sul pavimento di legno. E quel rumore, quel sommesso scricchiolio rimase nella mente di Marya e Ismaele un ricordo confuso con i loro sogni, e per molti giorni non ci pensarono più.

Come ogni giorno la mamma li svegliava poco dopo il sorgere del sole e con una frugale colazione di pane e latte, i due bambini si incamminavano verso la scuola. Il loro papà, che a quell’ora era già al lavoro, si raccomandava sempre di non lasciare mai il sentiero sicuro che aveva loro insegnato a seguire il primo giorno, quella stessa strada lunga alcuni chilometri che tanti altri bambini, dai più piccoli ai più grandicelli, percorrevano per andare e tornare dalla scuola. Nel pomeriggio, quando il tempo era bello ma non faceva troppo caldo, si divertivano a giocare nel piccolo giardino assieme agli amici. Le ore passavano nel divertimento, tra corse e inseguimenti, così velocemente che quando la mamma li richiamava per la cena era come ripiombare d’improvviso in una realtà che avevano ormai dimenticato. E intanto i giorni passavano…

Lo scricchiolio, però, non era cessato, anche se Marya e Ismaele non lo riuscivano più a sentire perché i loro sonni erano così profondi e pieni di sogni. Ogni mattina all’alba da sotto il pavimento della cameretta dei due bambini si poteva udire un suono strano: “Crick, croook, craaaack… frrrrr…. Crick, croock, craaaack…” che andava avanti per alcuni minuti, poi tornava il silenzio. Da alcuni giorni, però, Marya e Ismaele si erano accorti di una cosa molto strana quanto inspiegabile: al risveglio la loro cameretta era tutta in confusione, i giochi sparsi sul pavimento in modo molto più disordinato di quanto ricordassero di averli lasciati, e i libri sulla scrivania erano aperti o rovesciati alla rinfusa. Cosa stava succedendo? La mamma li sgridava sempre più spesso proprio per questo grande disordine che ormai regnava nella loro stanza; si raccomandava con Marya e Ismaele ogni sera perché da bravi rimettessero in ordine, ma al mattino sconsolata si accorgeva che, ancora una volta, non l’avevano ascoltata. I due fratellini si sentivano ogni giorno più incuriositi, ma anche un po’ impauriti: volevano scoprire chi o che cosa si stesse divertendo con quei trucchi a loro insaputa per farli apparire agli occhi di mamma più monelli e disobbedienti di quanto realmente lo fossero. Il mistero doveva essere al più presto risolto! Ma come?

Un mattino Marya si svegliò d’improvviso, appena qualche minuto prima dell’arrivo della mamma. Udì un rumore: “Crick, croook, craaaack… frrrrr…. Crick, croock, craaaack…” e decisa a scoprire da dove provenisse e chi lo provocasse, balzò subito giù dal letto. Tese l’orecchio e si avvicinò al suo cassetto dei segreti… quello strano scricchiolio veniva proprio da lì. Si fece coraggio, raccogliendo tutto quello che il suo piccolo cuore di bambina poteva offrirle, e con la mano tremante aprì di scatto il cassetto. “Ohhhhhh!!! Che meraviglia e che stranezza è questa!!!???” esclamò a bassa voce vedendo un ramoscello con tante belle gemme spuntare dal fondo del cassetto. Si accorse che si trattava proprio di un ramo d’albero che, nonostante le piccole dimensioni e la sua apparente fragilità, non solo era riuscito a bucare il pavimento della loro stanza, ma si era intrufolato con forza nei cassetti e sembrava non avere ora nessuna voglia di fermarsi. Con uno scossone destò suo fratello dal sonno beato in cui ancora si trastullava e cercò di spiegargli in fretta la strana scoperta che aveva appena fatta. Certo non lo potevano tagliare, perché era già evidentemente molto più forte di loro due messi insieme ed essendo cresciuto nella loro cameretta ne faceva ormai parte. Così, insieme decisero che quello sarebbe stato, almeno per il momento, il loro segreto di fratelli. Ma che cosa serviva al loro nuovo amico? Soltanto un po’ d’acqua. Così ogni mattina, prima di andare a scuola, cominciarono a dare al giovane albero un po’ d’acqua perché potesse diventare grande. E lui cresceva… cresceva…

Era ormai piena estate. Quel giorno la mamma non venne come al solito a svegliarli. Il sole era già alto nel cielo e tanta luce filtrava dalla persiana abbassata. Marya pensò subito che doveva essere ormai l’ora di prepararsi per andare a scuola e forse la mamma si era addormentata… Allora accese la luce e si precipitò agitata a svegliare quel gran dormiglione di suo fratello. Poi aprirono la porta della loro cameretta e… “Oh mamma!!! Attenti a non cadere! Ma… dov’è finito il corridoio e il resto della casa???”. Marya e Ismaele rimasero sbigottiti dalla scoperta: la loro stanza era diventata quello che avevano tanto sognato, una casetta sull’albero, sorretta in alto, molto in alto, sui rami robusti del loro amico segreto. La sorpresa fu talmente grande che i due fratelli, dimenticando tutto il resto e il mondo fuori, trascorsero l’intera giornata giocando e raccontandosi storie fantastiche all’interno della loro casetta, che ora era la casa dei tre porcellini, ora quella dei sette nani e ora invece, era un veliero pirata che solcava i mari in tempesta… In cambio di quella poca acqua, quale grande regalo aveva fatto loro l’amico albero? Il suo dono pieno d’amore era la possibilità di viaggiare in tutto il mondo, di vedere e scoprire nuovi paesaggi, le pianure, le foreste, le montagne, i deserti e gli sconfinati oceani e di costruirvi esilaranti avventure di cui loro potevano sempre fare parte assieme a moltissimi altri bambini. Marya e Ismaele avevano permesso a quell’albero di crescere su un piccolo fazzoletto di terra e lui gli aveva donato la terra tutta intera con i suoi cinque immensi e straordinari continenti. Per salire e scendere da quel rifugio sicuro ora avevano bisogno solo di una scala a pioli rossa, che li poteva riportare alla realtà della loro vita di bambini in quella terra tormentata, solo quando ne avevano voglia.

Ismaele quella notte fece un sogno: come era successo a loro, tanti altri alberi, faggi, querce, olivi e fichi, erano cresciuti nel silenzio sotto il pavimento delle stanze di tutti i bambini del loro villaggio ed ora che il sole era alto nel cielo, sulla pianura prima desolata, si potevano vedere a perdita d’occhio tante piccole casette di legno sorrette da robusti alberi. E non importava se si trattasse di un faggio, una quercia, un olivo oppure un fico. Tutti gli alberi, pur così diversi tra loro, avevano infatti un'unica, solenne volontà: dare ad ogni bambino il suo posto sicuro in cui giocare facendo volare la fantasia, sorretto in alto sulle loro braccia robuste e sicure. Anche gli uccellini erano tornati a posarsi sulle fronde maestose di questi alberi e i loro canti melodiosi riempivano ormai ogni spazio di silenzio. E la desolazione e la paura non esistevano più…

Ma mentre era ancora avvolto nel sonno, un rumore improvviso e spaventoso squarciò l’aria, facendo tremare a lungo le pareti della loro piccola casa sull’albero. Questo tremendo suono, purtroppo, Marya e Ismaele lo conoscevano bene… un altro bambino era uscito da quel sentiero sicuro che portava alla scuola e si era avventurato compiendo qualche passo nel campo brullo, arido e pieno di buche che si stendeva tutt’intorno… forse lo aveva fatto per vedere più da vicino un verde, allegro maggiolino.


Questo racconto ha partecipato al Concorso letterario 'UNDICI - Parole di Pace' 2014 organizzato dall'Associazione Culturale 'CircumnavigArte' vincendo il 2° Premio per la Sezione Racconti. Il tema portante del Concorso è “la pace e la solidarietà”, argomento meglio definito e identificato dall’Art.11 della Costituzione Italiana: “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”  

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